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Out Key Hole “Dreams in waking state”

In Uncategorized on 13/01/2012 at 16:32

 Non credevo, dopo trascorsi protratti innaturalmente (leggi: professionalmente) oltre il loro limite edonico, che mi sarei più trovato nelle condizioni di scrivere consapevolmente una recensione che suonasse come tale. L’occasione mi è offerta, ora che gratamente non lo devo più a nessuno, da un evento ugualmente imprevedibile e certo ben più lieto delle mie quisquilie biografiche, capace di riaccendere vecchi entusiasmi proprio a monte là dove la passione per la musica vive di cultura e sensibilità e di nient’altro che ciò. Gli Out Key Hole sono da vent’anni, per i pochissimi a cui questa denominazione non suoni attualmente nuova, il segreto meglio custodito del rock messinese. E mi rendo qui volontariamente responsabile di due inesattezze, la prima essendo: Messina, città la cui precarietà geografica fa il paio con quella sociale, dove tutto quello che non capita sembra semi-verificarsi per l’oscura macchinazione d’un fato la cui presunta imperscrutabilità avalla e legittima giochi di potere adusi a soffocare ben prima della nascita i singulti d’una creatività pavida e costretta entro mura blindatamente domestiche. La seconda imprecisione essendo: rock. Lasciato a sé tale termine si smarrisce nelle generalità della nostra grossolana micro-era, che ne ha già da lungi celebrato il funerale. Si specificherà meglio allora: rock psichedelico, ove la sottolineatura sia posta sotto psichedelia e non sia semplice tag d’un link a un ugualmente generico download allo scopo di indirizzare bulimici solletichi cliccatorii. “Dreams in waking state” il primo (auspicabilmente di una lunga serie) lp a firma Out Key Hole riferisce già con l’esatta inesattezza del titolo della materia di cui queste dieci canzoni sono naturate. Non troverete pulizia dei suoni, né contenuti concettuali ben definiti; a un primo ascolto faticherete persino a percepire il silenzio fra una traccia e l’altra, tanto questo disco riesce a suonare coeso e avvincente. La sua sostanza si dipana per esplosioni neurali che illuminano l’orizzonte percettivo come magnificenti fuochi d’artificio psichici per acquietarsi poi immantinenti nella solenne intimità di una forma musicale archetipicamente interiore e creativa come poche altre. Sono gli anni sessanta più acidi e polverosi a trovare qui nuova vita, e si badi bene: non per una scelta dettata da occasione o revivalismo, succube di questa o quella moda artificialmente resa rimonetizzabile dal sistema aleatorio della moda schizofrenica e allo sbando dei nostri tempi. V’è una filologia totalmente istintiva e quindi semplicemente a-temporale che presiede allo svolgimento dei 35 minuti di questo disco, ma il resto è pura invenzione e ispirazione. Cervello e sangue, struttura e passione. Gli Out Key Hole impressionano per la capacità di produrre nel 2010 (anno di realizzazione ma non di pubblicazione) un disco che degli anni sessanta non detiene soltanto la forma, ma soprattutto, conserva freschezza compositiva e primigenio entusiasmo. Ascoltando “Dreams in waking state” la creatività rock sembra ancora avere davanti a sé sconfinati territori inesplorati e infinite possibilità combinatorie. Come può accadere tutto ciò? Accade perché, al di là di ogni discorso rinunciatariamente storicizzante, questi tre ragazzi (Carmelo Gazzè, Tiziano Giunta e Stefano Restivo) vivono la loro musica visceralmente, la loro cupidigia emotiva s’è sviluppata in una sorta di oasi creativamente protetta, e laddove la storia s’è adattata piegandosi al gioco del capitale musicale tutto proteso a forzosi rimescolamenti grammaticali capaci di vendere prodotti sempre più poveri d’anima, gli Out Key Hole hanno scelto una forma che non è soltanto estetica, ma essenzialmente percettiva, che è andata arricchendosi di dettaglio e sentimento man mano che il flusso della vita glieli offriva. Non aspettatevi dunque un disco facile. “Dreams in waking state” procede come un intenso flusso d’incoscienza; è assai sfaccettato e possiede il pregio di sapersi caleidoscopizzare in innumerevoli livelli sonori e melodici sapientemente armonizzati. Carmelo, Tiziano e Stefano sono in realtà tre jazzisti della psichedelia; la materia scorre fra le loro mani e attraverso i loro cervelli con una familiarità, dimestichezza e complessità da lasciare sbalorditi. Persino i pezzi più complessi degli Electric Prunes (uno dei numi tutelari della band: e non per caso è James Lowe a presentarli lusinghevolmente nel booklet) sembrano filastrocche adolescenziali a confronto delle loro song più articolate; mettiamo “How much you need to”, che apre magnificamente l’opera con l’irruzione d’un lucidamente caotico muro di riverberi e melodie in lotta fra loro, o la superba “The Silver Ring” (di cui gira in rete un ottimo videoclip in stile classico psichedelico) da cui aggettano ora jingle-jangle mcguinniani incupiti e ulteriormente diffratti ora vorticosi maelstrom lovecraftiani (nel senso del sognatore di Providence e nel senso della band a lui consacratasi). Questi omaggi al baratro sensoriale nell’economia complessiva del disco si alternano a episodi in cui una lieta postura beat è adeguatamente intorbidita (“I pretend to run”) da sapiente mano arrangiativa fino a smarrire l’input iniziale per mutare in sublimi decostruzioni psichedeliche (“I know the truth”), o a composizioni in cui la dolcezza della melodia (“Away from the sun”) si giova di ogni piccolo indistinto microsuono per innalzarsi a vette d’intenso struggimento malinconico avvicinandoli agli attingimenti di band superbe e oscure come la West Coast Pop Art Experimental Band. Uscito per la benemerita Misty Lane (qui certamente a uno dei climax del proprio catalogo) e prodotto da quel buon uomo di Mauro Marchingiglio (che mi permetto vezzosamente di ricordare, fra le varie sue storie, fra i compagni del sottoscritto nel progetto Rainy Days Sponge, unico altro psychedelic act messinese) questo cd va assolutamente posseduto (nel 1967 il download sarebbe sembrato soltanto una barzelletta macabra). Rimandandovi per questo nobile gesto verso le vostre menti e i vostri timpani alla pagina myspace o facebook della band, spero di ricevere presto la riconoscenza di coloro che avendo qui letto abbiano per un attimo messo da parte la loro reticenza storicamente indotta e si siano lasciati sedurre da quello che nel 2011 suona come uno dei più alti prodotti del 1967. Hey, in fondo il tempo è soggettivo, no?

Humpty Dumpty